di Paolo Borgognone
Le elezioni statunitensi dell’8 novembre 2016 hanno definitivamente consacrato il populismo antisistemico proprio nel Paese simbolo del Pensiero Unico Neoliberale, ossia gli Stati Uniti d’America. La vittoria elettorale di Donald Trump apre infatti le porte a scenari di tipo nuovo, all’insegna della rottura degli schemi geopolitici, ideologici e culturali affermatisi e dominanti sin dal 1989.
La vittoria di Trump, successiva alla Brexit del 23 giugno scorso, segna un colpo durissimo nei confronti dell’ideologia della fine capitalistica della Storia, delle ambizioni globaliste della finanza internazionale, delle velleità egemoniche del grande capitale transnazionale e della cultura politica della sinistra cosmopolita. La vittoria di Trump trae origine e si alimenta appunto dalla separazione intervenuta, già dalla fine degli anni Sessanta del XX secolo, tra sinistra e classi popolari.
La sinistra, oggi spazio politico-culturale di riferimento delle classi agiate newyorkesi, ha esaurito la sua funzione rappresentante dei ceti proletari nel momento in cui questi ultimi, ossia la classe operaia autoctona, da Pittsburgh alla Pennsylvania, passando per l’intera “Cintura della Ruggine” (Rust Belt), la regione un tempo industriale comprendente tutto il Nord-Est degli Stati Uniti, ha votato compattamente per Trump. Sul candidato repubblicano Donald Trump sono infatti confluiti i voti, determinanti, di tutti coloro i quali Hillary Clinton, capofila del “Partito Democratico della Guerra” e dell’establishment, aveva impunemente definito «una massa di deplorevoli» in campagna elettorale.
Hillary Clinton, il candidato di punta delle classi agiate di New York e San Francisco, l’esponente politico che aveva perorato la radicalizzazione dello scontro con la Russia e il rilancio della globalizzazione unipolare attraverso il varo del TTIP, è stata sconfitta in quanto percepita, da quello stesso elettorato operaio un tempo schierato con i democratici, come il rappresentante principale del partito della finanza internazionale, di Wall Street. Ricordiamo infatti che per la sua campagna elettorale, due volte più dispendiosa di quella del rivale Trump, Hillary Clinton ha ricevuto finanziamenti per 48,5 milioni di dollari dai vari fondi d’investimento speculativi quotati a Wall Street (contro gli appena 19 mila versati a Trump).
Già nel 2008 la Clinton era unanimemente considerata l’espressione politica più affidabile dalla finanza newyorkese. Inoltre, per la campagna presidenziale del 2016, la Fondazione Clinton ricevette ben 13,8 milioni di dollari dal fondo d’investimento legato alla Open Society Foundation di George Soros, il miliardario internazionale da molti autorevoli commentatori ritenuto l’architetto dei colpi di Stato postmoderni, filoccidentali, attuati nei Paesi da ricondurre sotto l’orbita geopolitica di Washington e sotto l’orbita culturale del globalismo.
La Clinton, infine, ricevette, per la sua campagna elettorale dai 15 ai 25 milioni di dollari dall’Arabia Saudita e, fattore non trascurabile a livello mediatico, incassò il sostegno unanime della società dello spettacolo a stelle e strisce. La sconfitta della Clinton è, dunque, la sconfitta dei fautori del globalismo e del nichilismo, dei cultori della fine della Storia e dell’impero liberaldemocratico americano come destino ineluttabile per tutti i popoli del mondo. Inoltre, la sconfitta di Hillary Clinton travolge e compromette definitivamente la credibilità di tutta quella stampa liberale, conformista, adeguata alla e portavoce della sottocultura pubblicitaria del pettegolezzo e della notizia come merce ad effetto da vendere sul mercato del riscontro politico e, perché no, elettorale, di turno.
È a questo riguardo sufficiente citare come il New York Times, ancora la sera pre-elettorale del 7 novembre, attribuisse alla Clinton l’85 per cento delle possibilità di successo nelle votazioni. In realtà, come la storia ha poi immancabilmente dimostrato, i sondaggi erano manipolati allo scopo di suscitare consenso pubblico attorno alla figura del candidato presentato come “vincitore in pectore”, ossia Hillary Clinton.
I sondaggi infatti, nel momento in cui sono confezionati dalle élite a scopi prettamente autoreferenziali, non servono a fotografare la realtà ma a prospettare al pubblico omologato la rappresentazione della realtà che il detto establishment pretende prevalente. La “rivoluzione silenziosa” di Trump assesta pertanto una grave sconfitta alla società dello spettacolo. A seguito della Brexit e della vittoria di Trump si è ormai già oltre la svolta potenzialmente epocale. Il mondo come lo abbiamo conosciuto tra il 1989 e oggi pare essere davvero finito.