“Oggi il male (guarda un po’ da che pulpito viene la predica!) ha subito un grave colpo”, ha tuonato chi gli ha dato (anzi, ha mandato altri a dargli) la caccia per più di un anno, autorizzato dalle parole del Levitico che lo incitavano ad inseguire i nemici che cadranno davanti a lui colpiti dalla sua spada…
…e tutti a sculettare, a scodinzolare nei vari TG e articoli di stampa per dimostrare ancora una volta (come se ce ne fosse ancora bisogno) fedeltà cieca e incondizionata a chi detta loro la linea politica editoriale da seguire. Una linea ideale paragonabile a quella che un tempo si tracciava sulla lavagna di classe per separare i buoni dai cattivi…
E Yahya Sinwar era un cattivo, addirittura un animale, un brutto animale con la bocca ancora lorda del sangue raggrumito delle prede che ha azzannato e poi sbranato. Con la stessa ferocia di una bestia ferita; ferita da più di settant’anni di persecuzioni, di torti, una bestia a cui hanno tolto il territorio, bruciato la tana, distrutto l’orticello, a cui hanno impedito di bere rubandogli l’acqua, a cui hanno ammazzato perfino i cuccioli, i propri figli, i cui cadaveri hanno poi raccolto con le ruspe, come fossero carogne da buttare da qualche parte e togliendo, così, alle famiglie anche il lenimento del pianto. E gli animali feriti diventano belve, belve sanguinarie. E la colpa è dei “buoni”, che le hanno rese tali.
Finalmente l’hanno ammazzata questa belva indomabile. Ma, vi piaccia o no, Yahya Sinwar è morto combattendo e non nascosto in un bunker come il suo nemico che ben rintanato e ben protetto impartiva, da lontano, l’ordine di colpirlo. Ma, come si suol ricordare dinanzi ad una crudele sopraffazione o ad un beffardo accanimento di chi ha di fronte uno spietato avversario, Vae victis! Guai ai vinti!
Vi piaccia o no, Yahya Sinwar è morto per il suo ideale di libertà. Libertà per il suo popolo, a cui viene negato da anni il diritto di esistere; libertà per la sua Patria scippatagli da un pachidermico baraccone internazionale, tanto inutile quanto ingombrante, chiamato ONU, nel quale rimbalzano solo vuoti ed insignificanti paroloni con cui si impongono sanzioni a tutti (tranne agli amici e agli amici degli amici, s’intende). Un carrozzone obsoleto e sgangherato sul quale, dopo averne sprangato l’uscio, bisognerebbe apporvi un cartello con la scritta CHIUSO PER FALLIMENTO.
Spavaldamente e vigliaccamente, quelli del lato dei “buoni” della summenzionata lavagna, hanno diffuso un video del suo ultimo gesto, con l’intenzione di un ennesimo dileggio. Nella loro ottusa vanagloria, però, non si sono resi conto che quelle immagini esaltano di quell’uomo la morte eroica. Yahya Sinwar – nel suo ultimo disperato gesto di lotta – brandisce un bastone e lo lancia contro le armi che sparano contro di lui, sfidando in un gesto estremo i proiettili che stanno per aprirgli un orrido cratere sulla fronte.
Gesto estremo che richiama alla mente la medesima fine a cui andò incontro un bersagliere della Prima Guerra Mondiale che, pur mutilato e non avendo più niente tra le mani con cui colpire il nemico, gli lanciò contro la propria stampella. Un gesto che assicurò ad Enrico Toti un posto di eroe nei libri di storia. Un simile posto sarà riservato anche a Yahya Sinwar?
No, non sarà considerato tale, al massimo sarà riportato come Brigante, come i nostri Briganti che, pur coscienti dell’impari lotta, dopo il 1860 cercarono fino all’ultimo di difendere dall’invasore piemontese le loro case, le loro donne, i loro figli, …la loro Terra! Sì, sarà ricordato come Brigante, ma Brigante con la B maiuscola, come lo scrivo io e, soprattutto, come l’intendo io!
Erminio de Biase