NUOVI MODELLI
I rischi della società globale
di Gennaro Sangiuliano
da “Il Sole 24 Ore” del 20 Marzo 2016
Non si esagera nel ritenere che il rapporto fra globalizzazione e democrazia stia diventando uno snodo sempre più delicato del nostro tempo, fonte di non poche tensioni nelle società contemporanee. «Le decisioni stanno migliorando dallo spazio tradizionale della democrazia», è questo il monito che all’inizio del secolo è stato lanciato da Ralf Dahrendorf, aggiungendo che la democrazia non fosse applicabile «al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica». Da una prospettiva diversa, un altro autore britannico, il filosofo Roger Scruton, ha scritto che «le democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale», perché laddove «l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire». Lo studioso aggiunge con estrema chiarezza: «I recenti tentativi di trascendere dallo Stato nazionale e trasformarlo in qualche tipo di ordinamento transnazionale, si sono conclusi spesso in dittature totalitarie». Il politologo statunitense Robert Kagan, esponente di punta del pensiero neocon, che però di recente si è espresso in favore di Hillary Clinton, parla di «paradiso poststorico» che però, oggi, mostra elevati limiti.
Fino a qualche anno fa il destino globale, il dissolvimento nella grande liquidità, la costruzione del nuovo ordine mondiale unipolare (One World), sembrava segnato, ineluttabile. Ora, forse, le turbolenze interne e di molte democrazie che pure sono additate come modello di valori, sembrano rimettere in discussione la “fine della storia”. Finanche negli Stati Uniti, per i quali la spinta globale dovrebbe coincidere con l’estensione del suo modello, l’ascesa di personaggi come Trump e Sanders testimonia queste paure.
Il voluminoso saggio La globalizzazione sinistra, di Paolo Borgognone, ci immerge in questa forte dialettica da una prospettiva non convenzionale, esaminando un cinquantennio abbondante di storia politica, culturale, di sociologia e di geopolitica europea, a partire dalle “date simbolo” della seconda metà del XX secolo (1968, 1989, 1999). L’autore si muove attraverso una critica aspra alla metafisica globale che secondo la sua interpretazione si poggia su una teoria della dissoluzione nel magma cosmopolitico, auspicata dalle nuove classi medie globalizzate, rampanti e segnate dal tratto estetico del giovanilismo, con una forte spinta verso quella che viene definita la de-sovranizzazione della politica. Nel delineare le ragioni del nichilismo europeo Martin Heidegger fece ricorso a due giganti russi, in particolare riprende il discorso di Dostoevskij su Puškin del 1880, laddove lo scrittore cita il poeta nell’analisi del rapporto fra élite oligarchica e popolo. Il Puškin mediato da Dostoevskij delinea quello che chiama ceto dell’intelligencija che «crede di stare di gran lunga al di sopra del popolo» responsabile di aver alimentato una «società sradicata, senza terreno» e ne censura il comportamento «svincolato dalla terra del nostro popolo».
Le società occidentali per secoli si sono alimentate dalla concezione greca e romana della res publica, si sono nutrite di un’idea classica che fonda insieme i valori di libertas e virtus, capaci di delimitare un recinto identitario che esalta il valore degli individui nella comunità, definendo quello che Giambattista Vico chiama l’idem sentire comune. E per questo che Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes), proponendo un’idea faustiana dell’Europa, culla della civiltà, rinviene il tratto della decadenza nel cosmopolitismo che è «l’opposto della vita». Un tema che affascina un intenso intellettuale come Antonio Gramsci che corregge il marxismo classico aprendo al popolo-nazionae, richiamando il rispetto della volontà collettiva di una nazione.
Borgognone mette in guardia soprattutto da una degenerazione della classe media occidentale, passata da una concezione weberiana, garanzia di stabilità democratica, a una classe media americanizzata, nel senso di face book generation, alla ricerca di opportunità e successi globali che non tutti possono permettersi. Un contrasto evidente anche in Italia dove la classe borghese operosa degli anni Cinquanta e Sessanta, quella che costruì il benessere del boom attorno ai valori della parsimonia e del dovere, sembra aver ceduto il passo a entità indistinte.
L’autore non mantiene ad un solo livello filosofico la sua critica ma la cala in un quadro storico. «La guerra del 1999 contro la Jugoslavia fu il “battesimo del fuoco” della età postmoderna perché le motivazioni geopolitiche del conflitto furono mediaticamente subordinate (quando non direttamente taciute) al reale scopo ideologico dell’aggressione: convertire la Serbia, la Serbia tradzionale, rurale, cristiana-ortodossa, patriottica, alla forma mentis neoborghese delle nuove classi medie occidentalizzanti della Belgrado giovanilistica e cosmopolita».
La geopolitica non va interpretata e praticata esclusivamente come un dato territoriale, con l’occhio alle mappe, ma, secondo gli insegnamenti di pensatori quali Carl Schmitt, Karl Haushofer, Carlo Terracciano, Dragos Kalajic e Aleksandr Dugin, come un fatto spirituale, di consolidamento di blocchi continentali aventi quale denominatore comune identitario precise categorie socio antropologiche e culturali. Nella famosa distinzione tra Kultur e Zivilisation, il giurista Carl Schmitt individua i termini della crisi dell’Occidente,quei limiti di una cultura solo formale che vuole «rappresentare», prescindendo dal valore, mentre l’assunzione di un volere (Wertbehauptung), che è molto di più di un elemento direzionale, conferisce alla cultura di un popolo un contenuto sostanziale e comunitario.
Nella storia dell’umanità ci sono passaggi che finiscono per diventare una sorta di spartiacque, segno di un passaggio da un’era all’altra. La globalizzazione, forse, è un dato ineludibile del nostro tempo ma occorre distinguere fra una dimensione globale positiva, dove le pluralità con le loro diversità e le loro tipicità di incontrano e si migliorano, e la “globalizzazione sinistra” prevaricazione di un modello totalizzante e prevaricato sugli altri. La storia lo ricorda: globali e virtuose furono le espansioni verso nuovi mercati della Repubblica di Venezia, di Genova, di Firenze, dell’età comunale, della Magna Grecia e dei Fenici. Ben diversa è la realtà che Borgognone ci racconta.