Pubblicato dalle Editions Stock nel 2014 con il titolo di “Una question de taille”, il libro di Olivier Rey è apparso in lingua italiana nel 2016, lodevolmente curato per i tipi di Controcorrente da Giuseppe Giaccio, adottando il nome (vero compendio del ‘titolo dell’oro’ contenuto nel suo testo): “Dismisura. La marcia infernale del progresso”. Ho scoperto questo libro diverso tempo dopo che era stato esposto sugli scaffali dell’Adel Libreria Ar. Ne avevo notato il volume, ma ci giravo intorno, dubbioso e indeciso se prenderlo in mano, distratto da altri volumi o da altre copertine di cartanera. Alla fine ho troncato l’esitazione accidiosa e ho cominciato ad affrontarlo. Prima odorandolo, dall’usma immediata sono poi passato a toccarne le pagine, poi ancora a scrutare i caratteri di stampa ‒per concludere l’ispezione in quella che vorrei chiamare una mira, contemplativa, del ‘carattere’ del libro. Un carattere che, ai miei occhi, si mostra sincero, serio, sereno nell’esaminare i disturbi della modernità a noi contemporanea (armata di speroni, si duole l’Autore, ma disarmata di redini). Questo non è libro da negotium ‒quindi la mia raccomandazione non risente delle caratteristiche dei “consigli per gli acquisti”. E’ una esortazione, invece, a leggerlo, in quanto libro da otium, benefico perché ‘inutile’; proprio per questo motivo, invito quei lettori che ne abbiano già letto a dare notizia della vita di tale scrittura a quanti siano meritevoli della sua lettura ‒e a donarne un esemplare a quelli che lo meritino ‘in regalo’ (lo farò anch’io, per la prossima festa dei Morti). La mia è pure, per simmetria, una esortazione a non-leggerlo: rivolta a chi non venga attratto dall’esercizio del pensiero, ovvero dalla disciplina di capire, e cercar di comprendere, le risposte date da Olivier Rey ai quesiti che egli pone a sé stesso (e a numerosi altri Autori: in particolare a Ivan Illich e poi a Leopold Kohr, a Simmel, a Nietzsche, a Galilei, a Comte, per citarne solo alcuni) ‒e agli stessi interrogativi che a Olivier Rey avanzerà invece il lettore in cerca di cure per purgarsi di certa mestizia fastidiosamente umana. Infatti è per quest’ultimo ‒per chi, nonostante l’aggressione di innumerevoli artifici che puntano a piegarlo, sia rimasto ‘semplice e misurato’‒ che questo testo traboccante di preziose considerazioni ‘naturali’ è stato scritto in francese e ben trascritto in italiano.
Vale la pena di citarne alcune righe, per dare una impressione della natura dei pensieri di Olivier Rey. Dopo aver notato, assai opportunamente, che il senso suscitato dalla modernità “non è lo sviluppo, o la maturazione, ma il gonfiore”; che nella modernità per giunta è scomparsa la stessa “invidia degli dèi” (“Gli uomini di una volta dovevano stare attenti a non offendere gli dèi per troppo orgoglio, e a calmarne i moti di gelosia con sacrifici. Se oggi non facciamo più sacrifici, forse è perché non c’è più alcun rischio che gli dèi, guardandoci, provino la minima smania di gelosia.”); dopo aver rilevato questo, l’Autore spiega con una metafora la sua previsione: “L’idea di una fine della storia |.| non manca di pertinenza per caratterizzare la nostra epoca |…| nella misura in cui quello che ci succede non ha più la forma della storia, bensì quello di un gigantesco processo, come un titanico scivolamento di terreno di cui occorre attendere la fine affinché i superstiti possano ritrovare stabilità.”
Poiché sta per irrompere in quest’autunno il ricordo centenario di una insurrezione euroasiatica, la rivoluzione sovietica, invitiamo infine il futuro lettore del libro ad applicare la propria cerca disincantata alle righe di pagina 185: dove si parla male della madre euroccidentale del bolscevismo russo ‒ quella che i suoi ostinati drudi odierni (ormai francesi solo di lingua) continuano, con ‘franca’ (e non-sregolata, non-delirante) albagìa, a chiamare “la Révolution”.