Vi proponiamo un articolo a firma di Giovanni Belardelli pubblicato sul Corriere della Sera del 29 settembre 2017.
Smartphone in classe, una deriva da contrastare
Proprio la scuola, solo la scuola anzi, potrebbe contrastare certi entusiasmi per la capacità formativa delle innovazioni digitali.
Tra breve verrà dato il via libera all’uso dello smartphone in classe. È infatti questo il senso dell’insediamento, da parte del ministro Valeria Fedeli, di una commissione che rapidamente stabilisca non se ma come vada utilizzato il cellulare durante le lezioni. Giustificare la decisione con l’osservazione che l’uso dello smartphone rappresenta una «straordinaria opportunità» di apprendimento, se lo studente è debitamente orientato, mostra come il titolare della pubblica istruzione — ma anche, temo, il nostro intero ceto politico — abbiano smarrito l’idea di quali dovrebbero essere i compiti e la funzione della scuola. Il punto non sta, evidentemente, nel fatto che la Rete rappresenta una fonte di informazioni ormai irrinunciabile, ma nella mancata consapevolezza che il processo di conoscenza e apprendimento è una cosa diversa, che non può essere sostituita dal ricorso a Internet. La familiarità acquisita attraverso l’uso continuo – spesso una vera dipendenza – degli smartphone ha già abituato invece molti studenti a concepire lo studio e l’apprendimento non come un percorso personale, spesso faticoso, ma come qualcosa di semplice e veloce. Qualcosa di facile come appunto consultare un cellulare; e attraverso esso Internet, concepito come una sorta di gigantesco pozzo senza fondo del sapere umano. Lo si vede anche all’università, dove tanti studenti pensano che ascoltare il professore o prendere in mano un libro sia ormai tempo perso, visto che tutto è già lì dentro, nella Rete. La scuola, ma una scuola che avesse ancora una identità e consapevolezza di sé, dovrebbe contrastare questa deriva, mentre invece, se dobbiamo giudicare dalle indicazioni ministeriali, sembra preoccupata soltanto di accogliere le «domande» che vengono — o si ritiene vengano — dagli studenti, le loro vere o supposte «esigenze», in una deriva facilitatrice che sembra incapace di arrestarsi (uno scrittore che è anche insegnante, Marco Lodoli, ha immaginato, paradossalmente ma non troppo, che di questo passo, accettando acriticamente ogni innovazione digitale, tra un po’ si potrà fare a meno anche dei professori).
Ma c’è un’ulteriore conseguenza negativa, non degli smartphone in quanto tali, bensì della mitizzazione della loro funzione didattica. Già molti ragazzi e ragazze terminano le superiori non sapendo più scrivere in corsivo ma soltanto in uno stampatello spesso semi-illeggibile. L’incoraggiamento all’uso degli smartphone in classe non potrà che accelerare il cammino verso il completo abbandono della scrittura a mano. A questo riguardo, i nostri responsabili dell’Istruzione sembrano del tutto inconsapevoli del fatto che l’uso del corsivo non è una semplice tecnica di scrittura, che nel processo educativo possa essere totalmente sostituita dalla digitazione dei tasti su uno smartphone o altro dispositivo elettronico. Come hanno osservato molti pedagogisti e neuroscienziati, la scrittura a mano, a differenza della scrittura su tastiera, coinvolge e mette in relazione più parti del cervello, stimola la memoria, aiuta a sviluppare le capacità percettive e di organizzazione del pensiero. A volte, azzarderei, fa venire idee e pensieri che altrimenti non avremmo avuto. Non a caso in Paesi come gli Usa – dove la maggioranza degli stati ha eliminato la scrittura a mano corsiva dal curriculum scolastico – si sta sviluppando da qualche tempo un movimento in senso contrario (www.campaignforcursive.com).
Proprio la scuola, solo la scuola anzi, potrebbe contrastare certi entusiasmi per la capacità formativa delle innovazioni digitali. Parallelamente all’uso di tutte le strumentazioni che la tecnologia fornisce e fornirà, la scuola potrebbe e dovrebbe rivendicare a sé anche la funzione di luogo in cui si conservano e utilizzano capacità che rischiamo altrimenti di perdere. Tutto il contrario, come si capisce, della deriva «facilista», del superficiale abbandonarsi al fluire del mondo che sembra caratterizzare da tempo i nostri responsabili dell’Istruzione.